“L’impronta di Dio”. Foto di Mauro Almaviva
Continuiamo la storia delle misteriose immagini trovate dal Dottor Mauro Almaviva durante la sua ricerca in Swaziland. Una storia affascinante che sono sicura vi interesserà. La prima puntata è stata pubblicata il 14 aprile scorso. Leggi qui.
Buona lettura e aspetto i vostri commenti.
Maria Cristina Giongo
Anche se la Rock Art era già tra i miei interessi, l’inizio della mia attività di ricerca in Swaziland nacque un po’ per caso.
Nell’agosto 2008 accompagnai Bob Forrester (l’archeologo residente in Swaziland già menzionato nella prima puntata) e altri amici, a visitare l’ “impronta di Dio”, un’erosione naturale della roccia a forma di grande impronta di piede sinistro, che mi era stata segnalata da un’amica Swazi.
Gironzolando nei dintorni notai, su di una parete rocciosa, delle macchie rossastre, sbiadite, che avevano la fisionomia di antilopi.
“It’s a bushman painting”, mi confermò Bob, mai descritta in precedenza.
Confesso che essere stato il primo a scoprire un sito non ancora censito mi ha emozionato e riempito di soddisfazione.
Da quel momento la Rock Art divenne il mio principale interesse extra-lavorativo ed extra-familiare.
In totale ho scoperto 18 nuovi siti e ho visitato, assieme a Bob, quasi tutti quelli già conosciuti.
Chissà quanti ancora aspettano di essere scoperti!
Non sono in grado di dire quali figure, delle centinaia viste, mi abbiano colpito di più. Certamente quelle da me scoperte occupano il maggior spazio nel mio orgoglio da principiante.
Un’immagine che mi sta particolarmente a cuore è nel sito che ho chiamato “Komati”, dal grande fiume che vi scorre vicino (chi scopre siti ha il diritto di sceglierne il nome).
Raggiungere la parete su cui è stata dipinta mi è costato una notevole fatica; ma tanto più le mete sono sofferte più il loro raggiungimento resta nella memoria.
Avevamo individuato un grande masso concavo appoggiato su di un gigantesco macigno di circa 4-5 metri d’altezza e, attraverso il binocolo, mi era sembrato di vedere una macchia gialla sulla parete.
L’agile Sibusiso era riuscito ad arrampicarsi, utilizzando radici e rami e ci aveva indicato la strada.
Mentre però il suo peso sarà stato attorno ai 60 chili, io ne pesavo quasi 100 e, anche se in forma, non avevo più l’agilità della gioventù.
Devo ammettere che, essendomi incastrato tra due rami, sono stato aiutato con una bella spinta, poco decorosa ma efficace, sul sedere (questo è stato uno degli sproni a dimagrire di 10 chili).
La pittura rappresentava un felino in movimento, probabilmente un ghepardo, di colore giallo.
Di esso mi ha colpito la grazia: non trovate anche voi?
Non avevo con me il centimetro per misurare le dimensioni per cui l’ho fotografato, per mostrarlo a Bob includendo nello scatto il pollice di Sibusiso come “scala”.
Foto Mauro Almaviva
Nella zona sud del paese vi è una località con un pannello che mi è sembrato particolarmente misterioso: rosse figure umane senza braccia e, apparentemente, con una microscopica testa, che sembrano entrare nel mondo soprannaturale attraverso una crepa.
E’sempre possibile (ma non probabile) che parte delle teste e braccia fossero dipinte con colori sbiaditi nel tempo, ma in ogni caso esse sono certamente “particolari”. Eccole nell’immagine qui sotto.
Foto Mauro Almaviva
Quale arcano significato esse hanno avuto nella mente di chi le ha dipinte?
Perché i bushman dipingevano?
Non ho la pretesa di descrivere con accuratezza scientifica la complessa religiosità dei bushman: non ho la competenza e, comunque, questo non è la sede adatta.
Quello che sappiamo deriva molto da ricerche fatte presso gli ultimi bushman alla fine del 18°-inizio del 19° secolo.
Quando ci si confronta con una cultura che ha solo tradizione orale e il cui linguaggio non è diretto come il nostro ma simbolico e metaforico, è ovvio che la nostra interpretazione ne possa essere fuorviata.
L’uomo moderno ha suddiviso e categorizzato la natura e cerca piegarla i propri bisogni e desideri.
I bushman vivevano in essa e vi dipendevano per la sopravvivenza. Per questo un’intima correlazione si era stabilita tra la vita dell’uomo e quella di piante e animali.
Due teorie sono state sviluppate, in passato, per spiegare la Rock Art: l’arte fine a se stessa e cioè piacere estetico, oppure arte magica per avere controllo sugli animali e quindi funzionale alla sopravvivenza.
Sbagliamo se consideriamo le pitture semplicemente come una fotografia della vita quotidiana, un’espressione puramente estetica, il semplice piacere di decorare.
Anche la teoria del controllo sugli animali non è del tutto corretta come interpretazione: è troppo riduttiva e non spiega la complessità, ricchezza ed enigmaticità di molte raffigurazioni.
Non è escluso che, in certi casi, lo sciamano abbia voluto semplicemente manifestare la sua capacità artistica, ma le scene di caccia non sono semplici raffigurazioni di come i bushman si procuravano il cibo: esse descrivono la complessa simbologia del rapporto tra l’uomo e l’animale.
Negli ultimi decenni si è andata sviluppando la concezione della Rock Art come parte della religiosità e spiritualità dei bushman.
Essi credevano in un altro mondo, in un creatore (Kaggen o Mantis), vedevano alcuni animali come depositari di potere soprannaturale. Potere che gli sciamani dovevano imbrigliare allo scopo di entrare, in trance, nell’altro mondo per chiamare la pioggia, guarire gli infermi, ecc.
Nella mitologia bushman gli animali parlano tra di loro, si comportano come umani, danno origine alle cose.
Per citare un esempio (da studi del Dr. Bleek pubblicati nel 1875), la luna fu creata da Mantis che lanciò in cielo una sua scarpa con l’ordine che divenisse luna; essa è rossa perché la scarpa era coperta di polvere ed è fredda perché è composta solo di pelle.
La danza rappresentava (e ancora rappresenta), uno dei momenti centrali della vita dei bushman: si danza per i morti, per i malati, per la pioggia, ecc
Foto Mauro Almaviva
E’ un movimento circolare degli sciamani (donne e uomini) al suono di canti e di un battere ritmico delle mani da parte delle giovani donne.
La danza continua per ore e, alla fine, gli sciamani sperimentano alterazioni dello stato di coscienza (probabilmente anche con l’aiuto di sostanze allucinogene).
Nel crudo linguaggio scientifico moderno possiamo dire che gli sciamani avevano allucinazioni; per essi, invece, erano rivelazioni di una realtà religiosa oltre il nostro mondo nel quale entravano attraverso crepe o altre irregolarità della roccia.
Se danzavano attorno ad un Eland ucciso, essi s’impossessavano dell’energia soprannaturale dell’animale che serviva loro per aprire il velo sull’altro mondo.
Faccia a faccia con una pittura e sensazioni provate.
Mi sono sempre avvicinato alle pareti affrescate in silente rispetto.
Avevo la sensazione che le pareti dipinte volessero svelarmi i segreti degli artisti che, lontano nel tempo, hanno lasciato testimonianza della loro società, dei costumi, della spiritualità.
Quando è stato possibile, mi sono seduto di fronte alle figure dipinte, ho chiuso gli occhi ed ho cercato di immaginare il viaggio effettuato dal pittore.
Non che avessi la pretesa di entrare nell’altro mondo o sentire delle voci provenire da dietro la parete: questo potrebbe succedere solo in un film.
Eppure, oltre alla soddisfazione della scoperta, provavo qualcosa che non sono, ancor oggi, in grado di classificare nel mio razionale essere un uomo dell’era moderna.
Forse semplicemente mi vergogno di ammettere di aver fantasticato ed essermi visto seduto in silenzio dietro lo sciamano mentre dipingeva, oppure di essermi immaginato, in un anelito kafkiano, di essere Mantis o un teriantropo a becco d’uccello.
Foto di Robert Forrester
Oppure mi vergogno di essermi sentito spesso inebetito, non sapendo a cosa pensare: alla bellezza del dipinto, a chi fu il pittore, al perché aveva dipinto proprio lì, al tempo passato, al significato delle figure, e così via; domande inutili perché senza risposta.
Dare una chiave di lettura è importante ai fini storici di documentazione; ma in realtà, per i semplici entusiasti come me, non cambia molto che le pitture abbiano migliaia o centinaia di anni, che l’omino dipinto stia danzando o correndo, che sia un uomo o una donna.
Esse sono lì, un premio a chi ha faticato per andare a vederle e a “sentirle”.
C’è una cosa di cui mi sento sicuro: la Rock Art non si può semplicemente ammirare, essa va “sentita”.
Senza arrivare a Stendhal e alla sindrome che porta il suo nome, in fondo, a pensarci bene, non mi devo vergognare di aver fantasticato come un bambino e di aver provato quanto descritto: significa che la Rock Art è ancora capace di suscitare emozioni.
Valore e fruibilità delle pitture
Ho sentito alcuni visitatori affermare, magari con sincera ammirazione, che le pitture rupestri sono semplici, spesso senza proporzioni ma carine nella loro elementarità.
E’ una normale reazione per chi è abituato ai quadri di Raffaello.
Eppure non è fuori luogo affermare che alcune di queste pitture si possono definire splendide opere d’arte e che potrebbero stare al fianco di quadri esposti nei maggiori musei del mondo.
Non è una mia affermazione, ma la condivido.
Invito il lettore a navigare nei siti web elencati in appendice.
L’Africa ha la più grande varietà di Rock Art al mondo.
Si calcola che almeno 30 paesi abbiano siti tra cui il Sud Africa è il più ricco.
Questo tipo di espressione è presente anche in altri continenti, ma non con la ricchezza dell’Africa.
Il Trust For African Rock Art (TARA), stima ad alcuni milioni il numero d’immagini (senza contare quelle scomparse per effetto della natura e dell’uomo).
In generale, le pitture che si possono ancora ammirare, sono probabilmente “vecchie” da 200 a 15.000 anni al massimo (la maggior parte sui 5.000 anni), ma si crede che dipinti ora scomparsi potrebbero essere stati dipinti anche più di 50.000 anni fa.
In Swaziland esiste quella che è considerata la più antica miniera al mondo, risalente a più di 40.000 anni fa.
E’ la Caverna del Leone, visitabile, che si trova a Ngwenya, pochi km a nord della capitale Mbabane e vicino al posto di confine principale col Sud Africa.
Una miniera ove gli uomini preistorici estraevano il pigmento di ematite usato per ornare il proprio corpo e per il colore rosso usato nella Rock Art.
Cito un passo dal TARA: “la Rock Art è importante perché offre allettanti e fugaci impressioni delle culture primitive, dei loro principi morali e dello sviluppo delle capacità immaginative. Se è così essa è insostituibile.”
Un dibattito è in corso sulla fruibilità della Rock Art, se, cioè, renderla disponibile al grande pubblico oppure no.
La Rock Art è fragile perché esposta a una gran varietà d’insulti.
Insulti della natura e di esseri viventi tra cui spicca l’uomo che, per ignoranza o maleducazione danneggia le pitture.
La via che sembra più corretta è quella di sensibilizzare le comunità circostanti e delegar loro la gestione dei siti di Rock Art. E questo sia riguardo alla preservazione, sia alla gestione turistica.
In Swaziland, al momento, vi è un solo sito aperto ufficialmente al pubblico, dei 53 totali censiti, la maggior parte dei quali scoperti da J. Masson (recentemente scomparso) cui si devono molte delle conoscenze archeologiche del paese.
Il posto si chiama Nsangwini ed è gestito dalla comunità locale che mette a disposizione, a modico prezzo, una guida che accompagna i visitatori alle pitture (più di 100 figure).
I bushman oggi
Da ultimo non posso tacere quanto è riferito stia accadendo in Botswana.
I bushman sono stati forzati, a più riprese, ad abbandonare le loro terre per far posto a miniere di diamanti e al turismo. Anche se hanno vinto due cause (nel 2006 e nel 2011), contro il governo che li aveva deportati, in realtà non possono ritornare pienamente nel loro habitat perché i loro pozzi sono stati cementati, i villaggi, scuole e ambulatori smantellati.
In aggiunta, il loro avvocato, che li aveva assistiti fino allora, è stato bandito dal paese.
Come spesso accaduto in altre parti del mondo, una volta scalzati dalla terra e dal loro ambiente naturale, queste popolazioni, a contatto con la civiltà moderna, in una forzata vita sedentaria, sono preda di alcolismo, prostituzione e malattie (HIV/AIDS per citarne una).
Situazione messa in luce anche da un programma della BBC http://www.bbc.com/news/world-africa-24821867
Survival International, un’associazione attiva nella difesa dei diritti tribali nel mondo, parla di un villaggio turistico sorto nel territorio dei bushman, per cui, cito letteralmente, “mentre i bushman lottano per trovare acqua sufficiente a sopravvivere nel loro territorio, i turisti possono sorseggiare i loro cocktail sul bordo della piscina del villaggio turistico”.
Essa ha richiesto il boicottaggio turistico del paese, ma senza l’appoggio dei governi poco possono fare: “pecunia non olet”.
Ogni commento mi sembra superfluo, ognuno interpreti quanto sopra secondo coscienza.
Mauro Almaviva
CHI SONO
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Appendice: per saperne di più
1-TARA www.africanrockart.org (anche in italiano)
2-Rock Art Research Institute di Johannesburg (Sud Africa)
3-Archivio fotografico digitale del Rock Art Research Institute (più di 200.000 immagini): www.sarada.co.za
4-Articoli scientifici: Biblioteca dell’università di Witwatersrand (Sud Africa)
5-Informazioni sullo Swaziland: Swaziland National Trust Commission
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