June Patricia Hall –che fra qualche riga non mancherò d’intervistare per voi, cari amici de «Il Cofanetto Magico»– è una brava poetessa inglese e ha alle spalle una carriera di tutto rispetto, che l’ha vista prima affermarsi come redattrice della celebre casa editrice londinese Faber & Faber e poi come titolare di una prestigiosa agenzia letteraria. Ai successi, però, son seguiti momenti di dolore profondo; ed allora –devastata dalla tragedia del primogenito Pip, natole morto, e dalla scoperta di essere affetta dal morbo di Parkinson– la nostra autrice d’oltremanica ha iniziato a comporre versi su versi, che sono apparsi ultimamente sulle principali riviste specializzate del Regno Unito (da «Staples» ad «Acumen») e che, infine, sono stati raccolti in due sillogi, entrambe date alle stampe dalla Belgrave Press: The now of snow (positivamente recensita dal settimanale «The Observer») e Bowing to winter.
Bene, disbrigato ed “espletato” il doveroso preambolo introduttivo, son finalmente pronto a cedere la parola alla stessa June, cui voglio innanzitutto chiedere:
Quali sono state le tappe principali della tua carriera come redattrice presso la Faber & Faber?
Mi domandi della mia carriera alla Faber & Faber, il che mi fa sorridere perché i primi cinque anni non hanno poi molto della carriera. Arrivai lì tutta speranzosa perché quella era la casa editrice della famiglia de la Mare, come pure del mio grande nume ispiratore Thomas Stearns Eliot; e già mi immaginavo che sarei diventata un editor, proprio come lui. Scoprii, invece, che mi aspettavano soltanto lavoracci da schiava.
A ogni modo fui trattata molto bene nel mio tempo libero. Essendo io la segretaria dell’editor addetto alla collana d’arte drammatica, m’invitavano con mio marito a tutte le prime e a vedere tutte le nuove commedie. Senza contare che incontravo un discreto numero di poeti o ai loro reading di Londra o nei dintorni dell’ufficio; certo “incontravo” è una parola un po’ grossa, ma ricordo bene d’aver consegnato un dattiloscritto a Wystan Hugh Auden e ricordo Seamus Heaney che scherzava e faceva lo stupidino con noi del reparto segretarie. Inoltre mi davano manoscritti da leggere di notte; dovevo valutarli uno per uno per iscritto e le mie opinioni venivano prese abbastanza sul serio.
Da ultimo mi nominarono editor junior e m’incaricarono della collana dedicata alla fantascienza, che andava forte alla Faber. Nel frattempo diventai presidentessa della Società dei giovani editori e diedi una mano a redigere una serie di volumi, appositamente ideati per scoprire e introdurre nuovi drammaturghi, poeti e narratori.
Dopo il periodo alla Faber & Faber, casa editrice che alla fine hai deciso di lasciare, com’è continuata la tua carriera? Che cosa hai fatto?
Per un po’ mi cimentai con l’editoria per ragazzi. Ma non passò molto che cambiai settore, optando per quello delle edizioni economiche e per case editrici come la Sphere books e la Abacus. I tre anni successivi furono straordinari sotto molti aspetti. Come caporedattore intuii le potenzialità di parecchi autori, le cui opere divennero poi veri e propri bestseller, e i problemi dell’editoria –questioni finanziarie incluse– non ebbero più misteri per me. In seguito, una volta fondata la mia agenzia letteraria (che ebbe come cliente principe il colosso editoriale americano Simon and Schuster), mi diedi a cercare nuovi scrittori, per aiutarli. A quell’epoca non avevo ancora iniziato a comporre versi, perché ero tutta concentrata sugli autori con cui lavoravo.
Hai subito l’influenza di qualche grande poeta inglese del passato?
Beh, come ho già detto, Eliot è stato uno dei più importanti. Forse hai letto la mia poesia Tre assoli che appartiene alla mia silloge The now of snow e che è un affettuoso omaggio ai Quattro quartetti di Eliot.
Dedicai la mia tesi di laurea ai Quattro quartetti, per l’appunto, sull’onda della mia sconfinata ammirazione per il modo in cui Eliot riusciva nella difficile impresa di esplorare i paradossi della vita. Per quest’indagine, che era per lui una sorta di viaggio nei territori dell’anima, usava una fitta rete di richiami vuoi culturali vuoi spirituali.
Altri autori? Ovviamente Shakespeare è una pietra miliare per qualsiasi scrittore inglese. E poi chi? Thomas Hardy col suo lirismo; William Blake con la sua immaginazione e la sua, fra virgolette, “semplice complessità”; John Donne con l’arditezza e il fascino del suo immaginario metafisico; Henry Vaughan con le sue mistiche metafore; e a seguire Herbert, Keats, Yeats… Oh, quanti!
A tuo parere, quali sono i poeti più significativi e capaci, fra quelli attivi oggi nel Regno Unito?
Vorrei citare innanzitutto Ursula Askham Fanthorpe, che è diventata, col tempo, quasi il mio mentore e che, oltre a insegnarmi tanto sulla poesia, è stata davvero gentile con me. Amo di lei, che purtroppo è scomparsa, il modo in cui, nelle sue opere, uno sguardo franco e diretto (che potrebbe essere quello di ciascuno di noi) si combina con un’enorme intelligenza e la conoscenza della storia, ma anche con una grande compassione ed una notevole saggezza. Fra l’altro è da lei che i miei versi hanno imparato ad infondere profondità di percezione e densità di significati sia negli episodi che nei toni colloquiali della vita familiare e domestica.
Menzionerò di sfuggita anche Carol Ann Duffy e poi c’è Billy Collins che descrive così l’imprevedibilità della poesia: «La poesia è una battuta di pesca. Non sai che c’è là fuori, finché non inizi a scrivere».
In Inghilterra, i mezzi di comunicazione di massa prestano un’attenzione particolare alla poesia?
Che io sappia, abbiamo un paio di programmi radiofonici, dedicati ai poeti più amati dagli inglesi; in genere si tratta di classici come Kipling, Wordsworth, Betjeman (anche lui aveva il morbo di Parkinson e la sua vena umoristica è tuttora sottovalutata).
Basta domande, per un po’; è giunto infatti il momento di dedicarti questa mini-recensione: molte delle tue poesie spiccano per la loro intelligente e luminosa ironia. Complimenti, June!
Grazie. Mi riempie di gioia sapere che, secondo te, il mio stile è pregno di luminosa ironia! Ritengo sia vero che gli inglesi ricorrono spontaneamente alla parodia, alla messa in ridicolo o all’eufemismo ironico per veicolare ed esprimere il proprio particolare tipo di umorismo. Penso che nel mio caso tale tendenza affiori, almeno in parte, nelle forme che uso: una è la villanella, di origine antica e che sulle prime si è rivelata un’autentica sfida, a causa del difficile schema rimico e dell’obbligo di ripetere uno stesso distico per tutta la poesia. Io poi, il tema che sto trattando, adoro capovolgerlo con una virata improvvisa, capace di proiettarlo in direzioni completamente inaspettate. Un valido esempio di questo procedimento è il mio componimento Fine, in cui l’ultimo verso è una sorta di detonazione che fa esplodere il resto della poesia.
Che mi dici dell’ironia? È da sempre un tratto distintivo del tuo carattere? O è un modo di fare, come di pensare, che hai imparato e perfezionato col tempo, man mano che affrontavi gli ostacoli e le asperità della vita?
Può l’ironia aiutarci ad affrontare gli ostacoli e le disgrazie? A volte sì, suppongo: per esempio la poesia Fine dichiara con fermezza che combattere ogni giorno contro una malattia cronica è una dura realtà, anzi terribile o quasi, ma non un motivo sufficiente per piagnucolare e lamentarsi (non in Inghilterra, comunque).
L’ironia è il tè preferito della mia anima, che lo beve ogni giorno, alle cinque del pomeriggio. Un’affermazione tanto bizzarra, non significa che questo: come il tè è una miscela di aromi ben assortiti, così l’ironia è un ibrido gustoso, o meglio una sorta di “The Earl Grey” spirituale, in cui emozioni disparate e talvolta contraddittorie (ad esempio l’angoscia, la speranza, la gioia e la rabbia) si fondono armoniosamente l’una nell’altra. Sei d’accordo con me?
Sì, fai bene a porre l’accento sul fatto che dietro l’umorismo inglese si nasconde un’ampia gamma di emozioni, che includono senz’altro stati d’animo come la disperazione, la speranza, la gioia e la rabbia.
Dal momento che le presti una simile attenzione, mi domando (così, per curiosità…) se non sia proprio l’ironia l’aspetto che più t’interessa della mia opera!
Certo, l’uso dell’umorismo in poesia ha scatenato polemiche, talvolta. Gli americani, ad esempio, lo guardano spesso con sospetto. Robert Bly è arrivato a dire: «La poesia, se leggera, non è affatto poesia. La poesia, se è allegra, non è per niente poesia». E Donald Davie ha scritto: «Più che d’incoscienza, dà un’impressione d’insensibilità, di aridità: ecco qual è, almeno in poesia, il vero problema della leggerezza».
A quanto capisco, il nodo è questo: si tende a disprezzare i componimenti umoristici e a degradarli al rango di poesia leggera, frivola, sebbene Elizabeth Jennings dica: «Rispetto a una poesia “leggera” di buona qualità, le più seriose son meno difficili da scrivere; è quasi esclusivamente una questione di tecnica, di cesello e di padronanza dello stile». Personalmente vorrei schierarmi con la Jennings, in questo caso (e sono sicura che la Fanthorpe mi avrebbe imitata). Senza considerare che possiamo sempre rifarci a Shakespeare, i cui versi sciolti (trapunti di umorismo, anche quando sono quelli appositamente scritti per essere declamati sul palco delle tragedie più fosche) c’insegnano come l’umorismo sia capace di mostrarci infallibilmente, e in ogni circostanza, le due facce della stessa medaglia.
Pensi che Wordsworth avesse ragione, quando diceva: «La buona poesia nasce sempre dall’erompere spontaneo d’emozioni possenti»?
Non credo che sia sempre vero. Uno “straripamento” simile può trovarsi all’origine di molte poesie; le quali, però, hanno poi bisogno di passare attraverso gradi numerosi e differenti di raffinazione; si tratta di un processo che dev’essere condotto con bravura e grande abilità, in modo che le poesie –pur conservando l’intima impronta personale dell’autore– acquisiscano un carattere obiettivo e universale.
Io sono una che riscrive e corregge in continuazione: di una stessa poesia faccio dalle cinque alle cinquanta stesure (in alcuni casi rivoluzionandola, in altri cambiando appena una o due parole). Presumo che si possa dire questo, di un’abitudine così: che è capace di smuovere le poesie da una condizione iniziale d’impetuoso flusso di sentimenti, per “scortarle” ad un più composto stadio di obiettive opere d’arte.
Ritengo tuttavia che non ci siano regole predefinite per la poesia: si pensi al movimento post-modernista, che spinge la poesia su rotte assolutamente nuove, lungo le quali il senso stesso rischia di andar perduto, a favore d’un ironico distacco.
Anni fa, nel rispondere a una domanda che gli avevo appena rivolto, l’insigne poeta italiano Umberto Piersanti si espresse così: «Chi è il poeta? Una piccola prosa di Baudelaire ce lo spiega meglio dei saggi antropologici più eruditi. Il poeta, come tutti gli uomini, è un naufrago in un’isola deserta: aspetta l’alta marea, dunque (come tutti gli uomini) la vecchiaia e la morte. A differenza degli altri prende un biglietto, ci scrive sopra: «Io sono, io esisto». Mette il biglietto dentro una bottiglia e butta quest’ultima nel mare». Sei della stessa opinione, cara June? Anche tu credi che il poeta sia il solo esponente della razza umana a desiderare di essere ricordato per sempre e, al contempo, l’unico in grado di lasciare dietro a sé eterna memoria del proprio breve passaggio sulla Terra? Prego, dimmi pure.
Posso dirlo che si tratta di una domanda affascinante, posta in termini assai vividi? Naturalmente, penso proprio che io tenderei ad una visione meno “eroica” ed estrema dei poeti. Per esempio sarei propensa a considerarli alla stregua di chiunque altro, oggigiorno, e del resto a ogni uomo, o quasi, potrebbe capitare di scoprire in sé la capacità e la forza di scrivere almeno una poesia (per poi magari gettarla in mare, dentro una bottiglia, in uno dei momenti più paurosi o comunque significativi della vita). Per la verità io non creo in funzione del futuro: ciò che il mio cuore e la mia mente partoriscono e sempre partoriranno non voglio lasciarlo in eredità ai posteri, perché l’essenza di quel che provo e penso sono più interessata a mostrarla e comunicarla subito, adesso. In questo preciso momento.
Pietro Pancamo
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