A cavallo tra il 1979 e il 1980 partecipai, a bordo di un’ambulanza fuoristrada Fiat Nuova Campagnola, al rally “Transafrica ’80” aperto ad auto e moto che, partendo da Abidjan, in Costa d’Avorio, doveva raggiungere Tunisi attraverso il Burkina Faso, il Niger e la Libia.
Quest’ultimo paese non era ancora aperto al turismo per cui il raid ottenne uno speciale permesso di transito.
Non è il caso di rispolverare discorsi sulla disorganizzazione del rally: si era agli albori delle gare Trans-Africane (la prima Parigi-Dakar si era svolta l’anno precedente) e in ogni caso anche i più critici ammisero, in seguito, che si trattò di un’esperienza formativa.
Da quegli anni iniziò la stagione dei Rally africani che in seguito sparirono o cambiarono percorso, con il venir meno delle condizioni di sicurezza.
Il nostro rally si congiunse, alcuni giorni dopo la partenza, con quello francese chiamato “Échappement”, meglio organizzato.
Solo per citare il tema sanitario, i francesi avevano a disposizione diversi medici con cassette di Pronto Soccorso a bordo dì veicoli intervallati tra i concorrenti mentre noi avevamo un unico veicolo, la citata Fiat Nuova Campagnola diesel.
Uno dei frequenti miraggi: un bel lago d’acqua dolce!
A parte il fatto che un unico veicolo di soccorso sanitario non ha il dono dell’ubiquità, accaddero inconvenienti tecnici più o meno seri che crearono, talora, situazioni di stress.
Premessa d’obbligo: per non essere stata minimamente preparata dal punto di vista agonistico, la nostra Campagnola si comportò magnificamente, tenuto conto che spesso ci toccava tenere tempi di percorrenza “da gara”.
Era pomeriggio quando, durante la tappa Agadez-Dirkou (di circa 600 chilometri), attraverso il famigerato deserto del Téneré, terminammo il gasolio.
Oltre al fatto che la nostra auto non era stata rifornita di combustibile a sufficienza (ma è anche colpa nostra che non avevamo verificato), c’è da dire che la nostra vettura, stracarica di materiale, faticava più di altre a raggiungere la velocità di galleggiamento sulla sabbia del Téneré, che “succhia” le gomme e fa sprofondare.
S’impara in fretta a riconoscere i punti di sabbia più compatta ove prendere un po’ di velocità, così come i tratti soffici nei quali, con angoscia, ascoltavamo la sofferenza del motore impegnato a vincere la resistenza della sabbia.
Prima considerazione in una fase di ottimistica rassegnazione: è impossibile non avere aiuti con tante macchine dietro di noi. Avremo qualcosa da raccontare agli amici.
Passavano i concorrenti e passavano anche veicoli delle organizzazioni o di assistenza privata: tutti alimentati a benzina, non uno con motore diesel come il nostro. Come siamo sfortunati.
Seconda considerazione: vista la nostra sfortuna se avessimo avuto un veicolo a benzina, sarebbero passati solo quelli alimentati a gasolio. Il pensare di essere sfortunati, il “proprio a me doveva capitare”, è il primo passo che conduce verso lo sconforto, dovevamo evitare questo stato d’animo. Cala la sera: la batteria della macchina, lesionata in precedenza, non è molto carica ed è opportuno tenere le luci spente.
Terza considerazione: speriamo che non ci tamponino: farsi tamponare nel deserto è da barzelletta.
…Ho scritto DIESEL sulla sabbia…
Quarta considerazione: e se passassero tutti senza vederci? Nella notte, infatti, si sentono rumori di motori e si scorgono lampi di luce, ma nessuno abbastanza vicino.
All’alba scriviamo sulla sabbia “DIESEL” e un aereo dell’organizzazione francese che controllava i concorrenti (beati loro che avevano un aeroplanino) accenna di aver capito: speriamo!
Mezzogiorno. Adriano il mio coéquipier e amico di lunga data, pulisce il parabrezza con l’acqua potabile. Ammesso che fosse necessario (non c’erano certo moscerini ma solo polvere), a che scopo usare l’acqua? Lui dice che è per tenere impegnata la mente e distoglierla dai tristi pensieri.
Quinta considerazione: vuoi vedere che ci toccherà morire di sete per quei pochi millilitri sprecati? Abbiamo una scorta di circa 50 litri d’acqua. Breve ma proficua litigata: chi giura di non aver mai litigato col compagno in un raid in Africa mente sapendo di mentire.
Una punta di sconforto ci pervade.
E’ uno sconforto un po’ filosofico e un po’ mistico: si vede che era scritto nei libri del destino. D’altra parte un segno premonitore c’era stato quando, poco prima di Niamey, un maledetto tappo della batteria si era infilato tra la cinghia di trasmissione e la puleggia della pompa d’iniezione e mandando fuori fase quest’ultima. Per fortuna i bravissimi meccanici dell’assistenza Fiat, dopo un paio d’ore di lavoro, avevano risolto il problema.
Era questo incidente più unico che raro (la cinghia è coperta e vi è solo un pertugio di pochi centimetri quadrati che serve alla messa in fase) un segno premonitore? Poteva capitarci di peggio in seguito?
Cosa c’è di peggio che restare bloccati nel “deserto dei deserti”? La definizione è usata anche per altri deserti ma, credetemi, per il Téneré è appropriata.
Dopo quasi ventiquattr’ore di attesa, quando ormai cominci a pensare che è meglio organizzarsi per la sopravvivenza o pensi di scrivere le memorie per una pubblicazione postuma, arrivano finalmente i soccorsi.
Se Dirkou è a soli 40 km, perché metterci tanto ad arrivare? Perché quelli che erano passati avevano riferito
di noi a persone diverse, ognuna delle quali pensava avrebbero provveduto gli altri.
«Niente paura – ci dicono – ci sono ancora diversi veicoli che stanno arrivando dietro di voi»
Sesta considerazione: visti i precedenti meglio aspettare col serbatoio pieno.
Bellissime dune che abbiamo, a fatica, superato per raggiungere l’asfalto
In seguito, insieme a una carovana di ritardatari e di auto arrancanti rappezzate alla meglio, ho avuto modo di notare come, scaricate ormai le tensioni della competizione, siano venuti a galla l’altruismo e la solidarietà.
Il medico, a quel punto, non era più il tecnico dispensatore di compresse o cucitore di ferite, ma l’amico, il compagno d’avventura.
A distanza di anni, molti di coloro che hanno vissuto quell’avventura sono unanimi in una considerazione: è stata un’esperienza indimenticabile che si ricorda con nostalgia.
Per me è stato l’episodio che, in seguito, mi ha portato a passare in Africa quasi vent’anni di vita.
Chissà, forse un giorno ci scriverò un libro.
Riadattato dall’articolo pubblicato nel numero 6 del 1986 della Rivista “Doctor”.
Testo e fotografie di Mauro Almaviva
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Tags: Africa, mauro almaviva, viaggi
Deserto affascinante ed insidioso….
Deserto affascinante ed insidioso….ho uno splendido ricordo di Palmira, che spero salva, e del monte Sinai. Grazie ancora Mauro.
Affascinante davvero, avremmo preferito fosse stato meno insidioso!
Comunque ce lo siamo goduto lo stesso.