VIAGGIO AL FIUME OMO, ETIOPIA, SULLE ORME DI BOTTEGO

Fiume Omo

Nel gennaio 1992, assieme ad amici e colleghi, decidemmo di intraprendere un viaggio al fiume Omo, nel sud dell’Etiopia.
Stavo per concludere la missione di cooperazione sanitaria e avrei utilizzato le ferie residue.
Il fiume Omo evoca il viaggio di Vittorio Bottego alla sua scoperta, viaggio che finì tragicamente con la sua morte in uno scontro con popolazione locale il 17 marzo 1897.
Bottego, con i suoi accompagnatori, aveva raggiunto l’Omo il 29 giugno 1896.
Vannutelli e Citerni, due ufficiali che l’avevano accompagnato assieme al dottor Sacchi, così descrivono, nel loro resoconto L’Omo; viaggio d’esplorazione nell’Africa Orientale il loro arrivo sulle sponde del fiume: «Restiamo là, attoniti, silenziosi, a contemplar quella plaga sconosciuta che la fantasia, tante volte, in mille diverse maniere era venuta dipingendoci, e che ora si distendeva dinanzi a noi in tutta la solenne sua realtà».
Senza avere la pretesa di essere novelli esploratori ci siamo diretti a sud per veder luoghi incantevoli e conoscere popolazioni ancora raramente visitate dai turisti.

Statue Konso

Partiti all’alba, nella discesa verso sud accompagnati dall’amico Marcello un nostro connazionale che conosceva molto bene il sud dell’Etiopia perché vi accompagnava turisti, siamo passati per Shashamane.
Shashamane è famosa per essere sede di una comunità di Rastafariani, movimento religioso che vedeva, nel negus Hailé Selassié la reincarnazione di Cristo. Il movimento religioso è divenuto famoso, negli anni ’80 del secolo scorso, grazie ai musicisti Bob Marley e Peter Tosh.
Si passa la notte ad Arba Minch, (che significa quaranta sorgenti) città su di un rilievo che si affaccia sui laghi Abaja, scoperto da Bottego nel 1896 e battezzato lago Margherita in onore della moglie del re Umberto I e Chamo, scoperto dal Ruspoli nel 1893. I laghi sono separati da una striscia di terreno larga poco più di 3 chilometri chiamata “il Ponte del Paradiso” e che fa parte del piccolo parco di Nechisar che ospita più di trecento specie di uccelli e quasi cento di mammiferi.
Qui fantastichiamo su future avventure alla ricerca del materiale che la spedizione Bottego dovette lasciare nei pressi del lato ovest dell’istmo che separa i due laghi per viaggiare leggeri verso l’Omo.
Devo ammettere che la cosa mi aveva non poco appassionato, tanto che, una volta tornato in Italia, avevo compiuto ricerche bibliografiche trovando la conferma di questo fatto negli scritti di Vannutelli e di un altro esploratore italiano degli anni ’30 del secolo scorso, Asinari di San Marzano.
Probabilmente le attrezzature e i cimeli che avevano lasciato, sepolti in una buca coperta da un lastrone di pietra, sono state asportate in seguito dalle popolazioni locali.
Mentre il lago Abaya ha una colorazione rossastra dovuta alla presenza di argille e sedimenti ferrosi, il Chamo presenta un’acqua più limpida.
Qui, l’attività più redditizia è la pesca, specialmente del Persico del Nilo che può superare i 100 chilogrammi. La pesca è ancora effettuata, talora, su di una specie di instabile piroga formata da arbusti di ambatch, che espongono i pescatori all’attacco dei numerosi coccodrilli e ippopotami che popolano il Chamo.

Scendendo verso sud, si viaggia ad un’altitudine media di 1.300 metri in un paesaggio che varia da campi coltivati, a pascoli, a foresta. Arriviamo a Konso con la pioggia per cui decidiamo di dormire in un Buna Bet, così sono definiti i bar-locanda. Per noi vengono impiegate lenzuola ancora “incellofanate”, una gentile cortesia per i turisti stranieri.
I Konso sono agricoltori e, in parte, pastori. Essi sono usi a scolpire statue funerarie (waga) in ricordo dei defunti.
Da qui ci dirigiamo verso Jinka e la vegetazione cambia divenendo per lo più savana.

Durante il tragitto verso il verde parco Mago, con i finestrini aperti per via del caldo (niente aria condizionata sui nostri veicoli) ingaggiamo una battaglia contro le glossine (mosca Tse-tse) per evitare di essere punti.
La sera, accompagnati anche da una guida armata del parco, piantiamo le tende nel Parco Nazionale Mago in uno slargo nella foresta a qualche centinaio di metri dal fiume Neried.

Fiume Neried

Durante la notte udiamo spari e raffiche di mitra; la guida ci informa che probabilmente sono bracconieri in agguato lungo il torrentello. A scanso di equivoci mettiamo in moto le auto e con i fari accesi andiamo avanti e indietro per la radura onde evitare eventuali cariche di animali in fuga o colpi di rimbalzo. Cessano gli spari e torniamo a dormire, se così si può dire.
La tappa successiva è Turmi, un villaggio nell’area abitata dall’etnia Hamer. Qui si tiene un importante mercato ove le donne Hamer vendono i propri prodotti.
Gli Hamer sono pastori e agricoltori, noti per l’abitudine di ornarsi e per una cerimonia tradizionale per il passaggio dei giovani dalla pubertà alla virilità. Consiste nel correre avanti e indietro quattro volte sulla schiena di alcuni buoi senza cadere.
Le donne sono, invece, famose per l’eleganza. L’acconciatura è composta da treccine create mescolando ocra e burro. Spesso legano una fettuccia, attorno al capo, con un piattello di metallo che scende sulla fronte. Bracciali a torciglione e girocollo di metallo, anche molto pesanti (rame, ottone, argento), sono indossati assieme a collane di semi, di perline o di conchiglie. Anche il gonnellino di pelle di capra è spesso ornato. Alle caviglie e attorno alle gambe gli stessi monili di metallo attorcigliato.
Anche gli uomini si acconciano e si abbelliscono con orecchini, bracciali e collane.
Gli ornamenti non sono indossati a caso: hanno un preciso significato tradizionale (fidanzamento, matrimonio, numero delle mogli per l’uomo)

Hamer

Mentre i nostri giovani compagni di viaggio si affannavano a contrattare il prezzo delle foto e dei souvenir al mercato, mi sono seduto con Marcello e un collega di lavoro, in un Buna Bet a berci una Coca Cola. Quando ti siedi in un locale ove in genere i frengi (così sono chiamati gli stranieri) non sostano e offri da bere agli avventori, capita di venire a conoscere diversi aspetti culturali e storie di vita vissuta.
Ad esempio, la cameriera non era della zona: arrivò anni prima assieme ad un trasportatore che si stabilì nel villaggio. Dopo pochi mesi, lui se ne andò lasciandola sola e senza soldi, ora lavora al bar per pagarsi il viaggio di ritorno al nord.
Nel frattempo, si era avvicinata una donna Hamer che ci ha fatto capire che, in cambio di una Coca Cola si sarebbe fatta fotografare.
È più facile trovare una Coca Cola che biscotti.

Dopo aver passato la notte in tenda in una zona adibita a campeggio, siamo ripartiti per l’ultima tappa: il fiume Omo.
Il fiume ha rappresentato un enigma fino alla spedizione Bottego, che lo percorse fino alla foce nel lago Turkana e poi lo risalì trovando poi la morte quando era già nel bacino del Nilo Azzurro. Infatti, l’esplorazione dell’Omo, nella storia, ha avuto quasi lo stesso fascino di quella delle sorgenti del Nilo.
È lungo 760 chilometri e, nel suo bacino sono stati trovati frammenti fossili di ominidi risalenti a più di due milioni di anni fa a dimostrare che il fiume è stato una delle culle dell’umanità.
Siamo entrati nel territorio dei Mursi, etnia semi pastorale nomade. Sebbene posseggano interessanti aspetti religiosi e rituali, essi sono noti per un combattimento con i bastoni che i giovani effettuano come segno di ardimento e per mettersi in luce agli occhi delle ragazze nubili e per l’usanza, da parte delle donne, di inserire un piattello di terracotta nelle labbra inferiori. Fin dalla giovinezza vengono inseriti sotto le labbra, dei dilatatori sempre più larghi fino alle dimensioni richieste. Su questa usanza le opinioni spesso, discordano.
Alcuni antropologi ritengono che sia stata iniziata quando vi erano incursioni da parte di mercanti di schiavi: le donne col piattello sul labbro inferiore non erano preda ambita. Altra interpretazione, opposta, è che sia un ornamento la cui dimensione segue l’importanza sociale della donna stessa.
Gli uomini hanno l’usanza di dipingersi sul corpo, con argilla, disegni di vario tipo; pare che tale usanza servisse ad intimorire i nemici.

Donna Mursi

Lasciato i Mursi ci avviamo, verso l’Omo. Devo ammettere che è stato emozionante, anche se la tecnologia ci ha permesso di arrivarci con poche difficoltà, era pur sempre una zona remota e ancor poco visitata.
Il fiume scorreva tranquillo fra le sponde rigogliose.
In un angolo della riva, ormai sommerso dalla vegetazione, giaceva un traghetto ormai in disuso; ci hanno riferito che pare abbia navigato per poco.
Foto 5
Lungo la pista che per un po’ costeggiava il fiume vi era un caterpillar a lato del quale era stato ricavato un alloggio. Marcello ci ha spiegato che il mezzo si era guastato tempo prima e che il trattorista, per non lasciare incustodito il mezzo, viveva accanto ad esso aspettando, da mesi, i pezzi di ricambio.
Difficile dire se era attaccamento al lavoro o qualcos’altro.
Purtroppo, il tempo a nostra disposizione stava terminando e non abbiamo potuto continuare il nostro giro nelle terre del sud Etiopia.
Effettivamente fu un ritorno un po’ triste e del viaggio parlammo a lungo tra di noi come se volessimo che il ricordo non si attenuasse mai.

Testo e foto di Mauro Almaviva

Mauro Almaviva
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