Foto M.Almaviva
C’era una volta un piccolo uomo in Swaziland….
L’aveva vista, era proprio lei.
Kabo aveva individuato, nella gola scavata dal fiume Mkhomati, la grande roccia con una liscia parete arcuata fino a formare un tetto e con una grande crepa verticale.
Su quella parete lui, sciamano locale, avrebbe dipinto le visioni avute mentre aveva danzato per propiziare la pioggia ed era passato, in stato di trance, attraverso la crepa che era la porta per l’altro mondo.
Ogni volta che vi entrava, Kabo non vedeva quel mondo come spettatore, ma ne faceva parte; egli camminava tra animali, li salutava, incontrava i defunti membri della comunità e così via.
In quell’occasione, si fece largo tra una mandria di Eland, la più possente delle antilopi, creata, per prima, da Kaggen, il dio supremo (a dire il vero partorita da sua moglie).
Foto M. Almaviva. L’ antilope con due teste.
Passò accanto ad un’antilope con due teste, a uno gnu che chiacchierava con un elefante e a un manipolo di uomini, con una piccolissima testa, che stava tornando in fila, verso la crepa da cui era entrato.
Egli pensò: «Si sta affollando questo mondo negli ultimi tempi!».
Kabo si sentiva, però, strano: gli sembrava che la testa fosse più pesante del solito e poi, al posto delle braccia, aveva due zampe di leone. Eppure egli camminava normalmente sulle sue ossute gambe umane, anche se gli era spuntata una coda.
Specchiandosi in un laghetto vide che anche la sua testa era di leone, un bel leone con una folta criniera.
Non se ne impaurì: probabilmente Kaggen voleva che egli gironzolasse in quella maniera osservando quel mondo così diverso da quello in cui viveva. Inoltre non era mai divenuto leone prima d’ora (si era sempre trasfigurato in antilope) e questo lo inorgogliva.
Non doveva però distrarsi, il suo scopo era di trovare l’animale della pioggia, perché la pioggia tardava.
Finalmente lo vide, avrebbe dovuto uccidere l’animale e il suo sangue sarebbe divenuto pioggia.
Nel ritornare, dopo aver svolto la sua missione, a Kabo sembrò di vedere qualcuno muoversi dietro ad un grosso cespuglio.
Curioso di natura, si avvicinò ed ebbe la visione più emozionante della sua vita: Mantis (la mantide) che altri non era che Kaggen in una delle sue più comuni manifestazioni.
Timoroso di aver mancato di rispetto al creatore, arretrò in silenzio per poi dirigersi verso l’uscita e ritornare nel mondo terreno a descrivere l’esperienza vissuta.
L’epistassi di cui aveva sofferto, come sempre quando era in trance, era cessata ed era pronto a dipingere ciò che aveva visto.
Al riparo della concavità naturale avrebbe vissuto alcuni giorni fino al compimento della sua opera. Il ricordo delle visioni avute durante la trance erano ancora ben presenti nella sua mente.
Avrebbe usato colori presenti in natura (minerali, carbone, ecc.) mescolati con sangue, grasso animale, uova.
In verità ho un po’ semplificato la descrizione: la cultura dei bushman è complessa e ancora tema di dibattito interpretativo.
Comunque quanto descritto sarebbe potuto accadere e l’anonimo bushman avrebbe “affrescato” la grande roccia che, a fatica, eravamo riusciti a raggiungere, nel novembre 2011, grazie alla guida di un ragazzino che conosceva il posto.
Utilizzo il termine inglese bushman (che significa uomo della boscaglia), anche se qualcuno lo ritiene offensivo. D’altra parte i bushman non si erano dati un nome etnico e sono stati chiamati in molti modi, tra cui alcuni molto più offensivi. Ritengo, inoltre, l’italiano «boscimano» una storpiatura dell’inglese.
I bushman sono stati i primi abitatori dell’Africa australe (almeno 20-30.000 anni), ormai quasi estinti per via di conflitti con altre etnie Africane, migrate nei millenni scorsi, o con i bianchi colonizzatori.
Essi erano cacciatori e raccoglitori: avevano, quindi, attorno a loro tutto quello che serviva per vivere.
L’arrivo delle migrazioni di Khoi-Khoi (a essi simili), di Bantu e dei bianchi poi, con la necessità di coltivare e allevare animali domestici, creò dei conflitti insanabili.
La loro piccola statura, i differenti tratti somatici, il colore bruno chiaro della pelle, la loro lingua ricca di suoni palatali e dentali (definiti “click”), hanno fatto sì che gli invasori non li considerassero esseri umani; quindi potevano essere sterminati senza pietà. Una guerra impari in cui i bushman, con le loro freccette avvelenate, poco poterono contro lance, scudi, frecce e armi da fuoco.
Fu inevitabile che essi fossero spinti sempre più verso zone desertiche.
Ad oggi ne sono sopravvissuti circa 100.000, ma sono ormai relegati nel deserto del Kalahari a cavallo tra Namibia e Botswana.
In Sud Africa gli ultimi agglomerati si sono estinti già a cavallo del 18° e 19° secolo, in Swaziland, forse prima.
L’ultima mia esplorazione: la più intrigante e misteriosa
Quella del 6 novembre 2011, sarebbe stata la mia ultima esplorazione prima di lasciare, dopo anni di permanenza per lavoro, lo Swaziland, che è un piccolo e ospitale paese dell’Africa del sud incuneato tra la Repubblica Sudafricana e Mozambico, ricco di storia, di cultura e di splendidi scenari che valgono un viaggio turistico.
Dopo aver letto decine di pubblicazioni scientifiche sulla Rock Art (così è definita in campo internazionale l’arte rupestre) pensavo di poter intuire, secondo la logica, quali rocce o anfratti nascondessero pitture (dimensioni, superficie, copertura, distanza dall’acqua).
Il nostro sciamano non aveva usato la logica: era caduto in trance, aveva visitato l’altro mondo, era tornato indietro e aveva deciso, secondo i suoi criteri, che quella parete rocciosa era adatta ai suoi scopi.
Per questo su quasi trecento rocce, caverne, gole visitate in più di 3 anni, solo in 18 casi avevo rinvenuto delle pitture mai prima scoperte.
Il calcolo delle probabilità diceva però che, dopo giorni d’infruttuose ricerche e sofferenze, sarei stato, alla fine, premiato.
Apro una breve parentesi sulle sofferenze. Ogni volta che sono tornato a casa dopo una giornata alla ricerca di pitture rupestri, ero sporco, stracciato e graffiato. Il più delle volte avevo visitato decine di rocce senza rinvenire non solo alcuna pittura, ma neppure altri segni di passata presenza umana.
Quello di ridurmi a uno straccio è stato il mio marchio per tutta l’attività esplorativa effettuata in Swaziland. Che fosse per l’esplorazione di vecchie miniere d’oro abbandonate, per la ricerca di spettacolari cascate o per la ricerca delle vecchie piste percorse dai colonizzatori, non c’era volta che tornassi a casa alla sera nelle stesse condizioni in cui ero partito all’alba: pulito e integro.
Sono scivolato nel fango, sono caduto rimbalzando tra le rocce, sono finito in un fiume, mi sono strappato camicie quasi nuove. Faceva parte del gioco.
Ritorniamo al 6 novembre.
Ci eravamo avvicinati il più possibile alla zona rocciosa con la mia Land Rover Defender, aprendoci la via tra alberi abbattuti e un fitta vegetazione.
Foto M. Almaviva: ordinaria amministrazione
Lasciata l’auto avevamo proseguito a piedi, zaino in spalla. Com’è spesso successo, il tragitto, di circa un chilometro, era stato arduo e avevamo dovuto crearci la via tra la fitta vegetazione. Lucky e Sibusiso, i nostri collaboratori locali, salivano aprendosi un varco nella boscaglia con i loro “panga” (equivalente locale del machete). In poco tempo la rapida crescita della vegetazione avrebbe richiuso il passaggio.
Foto M.Almaviva: Lucky all’opera, riuscirà a trovare un passaggio?
Quando camminavo in testa, per dare loro il cambio, anch’io usavo un panga, ma la mia abilità nel recidere i rami non era pari alla loro. Invece di spezzarsi i rami si piegavano per poi tornare con uno scatto nella posizione originale; ed erano rami spinosi. Pare che sia una questione di movimento del polso. Per questo, pur ringraziandomi, Lucky e Sibusiso, preferivano aprire la marcia.
Il cielo mi ha aiutato: per la mia ultima esplorazione mi ha fatto trovare uno degli affreschi più originali scoperti nel paese. Già a pochi metri dalla grande roccia, avevo notato che la parete era chiazzata di rosso e bianco, ma la tonalità dei colori non sembrava naturale. Erano certamente pitture rupestri.
Purtroppo, anche in questo caso, l’acqua piovana aveva iniziato a colare attraverso le crepe della roccia, impallidendo o mescolando i colori.
La parte sinistra era composta da figure rosse, stilizzate, molto sbiadite. La destra riservava una scena di caccia: un felino, con gambe al posto delle zampe posteriori, era in posa d’attacco.
Foto M.Almaviva: il teriantropo, un essere metà animale (felino) e metà umano
Immagini di questo tipo, metà umane e metà animali, sono dette, teriantropi (dal greco therion=bestia e anthropos=uomo) e si riscontrano frequentemente nella Rock Art.
Il teriantropo è un’altra figura simbolica dei bushman, esso rappresenta la fusione tra lo sciamano e un animale. In questo stato egli visiterà l’altro mondo.
E’ però vicino ad esso che abbiamo rinvenuto le figure mai riscontrate in Swaziland e di cui non ho trovato equivalente nelle pubblicazioni e archivi fotografici che ho consultato.
Due figure bianche con residui di strie rosse, dal corpo umano ma con una testa che sembrava proprio quella di un insetto con antenne. Un altro teriantropo.
Foto M.Almaviva: Mantis, il creatore, o un alieno?
Potrei definire queste figure inquietanti e affascinanti al tempo.
Sono ritornato sul posto, dopo un paio di giorni, con Robert (Bob) Forrester.
Bob è un archeologo-antropologo con cui avevo iniziato a collaborare in ricerche storiche in Swaziland.
L’ipotesi più suggestiva, che Bob ed io facemmo di primo acchito, fu che si trattasse di teste di mantide perché, nella religione bushman, come visto all’inizio, Kaggen, il dio creatore, si manifesta anche come mantide.
Bisogna però dire che tale rappresentazione si rinviene abbastanza raramente nella Rock Art, per cui, dopo aver visto le fotografie, esperti sudafricani non avevano saputo chiarirci le idee.
Io resto dell’idea che si tratti della raffigurazione di Mantis.
Perché i bushman dipingevano? Perché le pitture sono ancora velate di mistero? Cosa ho provato trovandomi di fronte ad esse?
Lo vedremo la prossima puntata
Mauro Almaviva
Mauro Almaviva
Medico-chirurgo specializzato in Malattie Infettive. Ha lavorato presso l’Ospedale L.Sacco di Milano e per quasi 20 anni in vari paesi africani in programmi di cooperazione sanitaria. Ha inoltre effettuato numerosi viaggi in numerosi paesi africani. Appassionato di archeologia ha collaborato, in Swaziland, con l’archeologo Robert Forrester, con la Swaziland Archeological Research Association e con la Swaziland National Trust Commission, nella ricerca di pitture rupestri e nell’esplorazione di vecchie miniere d’oro abbandonate.
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Tags: bushman, mauro almaviva, mistero, Namibia, pitture preistoriche, rock art, sud africa
Bell’ articolo, complimenti.
Grazie.
Prima ho letto una favola, poi sono entrata nella rupestre realtà…. Dott. Almaviva, Lei è vivo per miracolo, dopo tutte le disavventure subite… Lo credo bene che il cielo l’abbia ricompensata, meritava sicuramente un ritrovamento originale, anche se le intemperie del tempo sono state impietose…. Complimenti, magnifico articolo (non avevo dubbi). Ora aspetto con ansia il seguito, cioè le risposte alle domande finali da Lei stesso espresse. (Spero presto)…. P.S. Non si ponga più la domanda: “saprò scrivere?”.. Lei sa scrivere benissimo !!!
Complimenti Mauro! La tua descrizione è appassionante e spero di poter leggere un seguito.
Caro Mauro, invidio un po’ il contesto in cui si svolge il tuo narrare, pregno del misterioso fascino dell’ avventura. Complimenti. Valentino
gentilmente notizie preistoria dell’africa